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Le Clarisse Cappuccine

Questo mese ci fermiamo insieme a dare una sbirciata tra le grate di un convento di clausura. Di solito appena si sentono nominare le “suore di clausura”, la fantasia comincia a galoppare, si accende il desiderio di conoscere questo mondo tanto misterioso, di capire che ci stanno a fare delle donne “rinchiuse”, come trascorrono le loro giornate e, soprattutto, se sono mai persone normali queste! Altri si domandano addirittura se ai nostri tempi è mai pensabile che esistano ancora! 
Ebbene sì, le suore di clausura esistono ancora e ne esistono di diversi ordini. Ho chiesto a sr Pia, una mia amica monaca, di dirci qualcosa sulla loro vita e di inviarci delle foto, per cui eccoci qui, a scoprire un altro aspetto della vita consacrata nella Chiesa.

Le Clarisse Cappuccine sono un Ordine di clausura, dove “Ordine” sta a indicare che osservano una Regola, ossia una forma di vita, un modo di essere  e di agire; “Clarisse” fa comprendere che questa Regola è stata scritta da Santa Chiara; e “Cappuccine” si riferisce alle Costituzioni che attualizzano la regola ai giorni nostri, e ricorda che le clarisse cappuccine nascono in contemporanea con i frati minori cappuccini, sono affidate alla loro cura spirituale e, in sintonia con loro, scelgono una vita più austera, che rispecchi il primo, genuino fervore dei fondatori.

Questa riforma ha inizio a Napoli con la fondazione delProtomonastero di Santa Maria in Gerusalemme, ad opera della Serva di Dio Maria Lorenza Longo, approvata dal Papa Paolo III con la Bolla Debitum pastoralis officii del 19 febbraio 1535.
La Madre Lorenza, nata in Catalogna (Spagna), intorno al 1463, si trasferì a Napoli nel 1506 con il marito al seguito di Ferdinando I d’Aragona. Con una guarigione miracolosa, avvenuta nel 1509 nella s. Casa di Loreto, fu risollevata da una penosa immobilità procuratale dall’avvelenamento di una sua serva, e fattasi subito Terziara Francescana, si dedicò alla cura dei malati presso l’Ospedale di s. Nicola al Molo posto sotto il Maschio Angioino.
Nel 1523 su ispirazione del genovese Ettore Vernazza e con l’aiuto della Compagnia dei Bianchi, fondò l’Ospedale Incurabili, sulla collina di Caponapoli (dove tale nosocomio tuttora esiste e funziona). In questo autentico teatro della carità per dodici anni trasfuse tutto il suo genio  femminile e tutto lo slancio religioso di cui era ripiena.
All’età di settantadue anni, crede ormai di aver raggiunto la pienezza: un’intensa vita di preghiera ed operosa dedizione ai malati nell’ospedale.
Niente fa presagire l’imminenza di un ulteriore stravolgimento se non fosse per il fatto che, nel 1533, San Gaetano Thiene con alcuni compagni giunge a Napoli e comincia a prestare assistenza presso l’ospedale Incurabili. La Madre, sentendosi ispirata dalla sua persona, si affida alla sua direzione spirituale e, presumibilmente, gli esprime il desiderio più profondo del suo cuore di trascorrere questi ultimi anni passando da una vita attiva ad una contemplativa, sempre però rimanendo nell’ambito dell’ospedale.
San Gaetano, data la delicatezza della questione pensa di chiedere consiglio al cardinale Carafa, anch’esso teatino. E questi risponde il 18 gennaio 1534: “… sono d’accordo con te che dal ministrare a quei poveri infermi abbiano a sollevarsi a cose migliori e più perfette e, come attesero ad accogliere Cristo nei suoi poveri, così accolgano Lui in persona. Ascoltino Lui che parla così : “le volpi hanno tane gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove reclinare il capo”. 

In effetti la situazione monastica del tempo non è delle più rosee a causa delle tante monacazioni più o meno forzate che risolvevano il problema delle figlie di nobili casati, escluse dalla contrattazione matrimoniale, consentendo loro di trovare casa e rifugio, permettendo così di tramandare per quanto possibile integro ed intatto il patrimonio familiare. E’ ovvia allora la decadenza della vita spirituale, la rilassatezza della vita claustrale.

La scelta della Madre viene a significare, in quel momento, un’eccezione a questa deprimente situazione. La riforma consiste in una clausura rigida, nella rinunzia alle rendite e alle doti delle candidate per vivere in povertà assoluta, sull’esempio di Santa Chiara nel 1212, in una vita fraterna in semplicità e soprattutto in una vita di preghiera. 

Dodici tra le sue amiche più strette le chiedono di condividere la sua ispirazione e si riuniscono nelle camere dell’ospedale, dove lei dimora, per celebrare l’ufficio divino. Intanto il Signore continua a suscitare nel cuore di tante giovani il desiderio di un’autentica vita religiosa, così il Papa, stimando la madre per rettitudine di costumi, con il Breve Alias nos del 1536, le concede di accogliere fino a trentatré sorelle; e la fiorente comunità si trasferisce nei luoghi più ampi della “Stalletta”, subito fuori dall’ospedale. 

La fama di santità di vita e dell’austerità delle Trentatré Cappuccine non tardò a spargersi fuori di Napoli. L’espansione dei monasteri delle cappuccine, sul modello di quello di Napoli e, subito dopo, di Roma, in Italia, in Europa e nel mondo fu vorticoso, tanto che a cento anni dalla fondazione già si potevano contare circa 200 monasteri.

"Oggi, sempre fedeli alla nostra peculiare vocazione di dedicarci totalmente a Dio sommamente amato, coltiviamo l’assidua contemplazione di Lui nel silenzio e nella solitudine, la lode continua, l’impegno di aderire a Cristo crocifisso con amore e spirito di annientamento. 
Il Vangelo è lampada ai nostri passi e l’eredità ricevuta da San Francesco e Santa Chiara che incarnia
mo in uno stile di vita fraterno, semplice, lieto, e in una povertà fondata sulla Provvidenza del Padre Celeste che “nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo”, senza mancare di lavorare nei tempi rimanenti dalla preghiera. 
Si può immaginare, quindi, la nostra giornata come un quadrante di orologio, le cui lancette hanno per perno l’Eucaristia e ruotano sulle ore della preghiera liturgica e della preghiera personale, del lavoro e dello studio, della ricreazione, del pasto e del sonno.
Dal momento però che la nostra non è una “fuga dal mondo” , un isolarsi, bensì siamo consapevoli che, all’interno del popolo di Dio, ci è affidato il compito dell’intercessione, attraverso la ruota, il telefono, la lettura del giornale, partecipiamo alle gioie e alle speranza, alle tristezze e agli affanni delle famiglie, e apriamo prontamente il cuore ad ogni sollecitudine di carità per qualunque realtà più bisognosa dello sguardo del Signore, per essere, come ci stimava S. Chiara: “Collaboratrici di Dio stesso e sostegno delle membra vacillanti del suo ineffabile corpo”."