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Ricoverati

 

B. Nunzio Sulprizio 1817/1836

V. Francesco Maione 1840/1874

V. Luigi Avellino 1862/1900

 

V.Luigi Avellino

Servo di Dio Luigi Avellino Giovane laico Vico Equense (Napoli), 16 aprile 1862 – Napoli, 13 aprile 1900

La sua storia sembra ricalcare quella del beato Nunzio Sulprizio (1817-1836), giovane lavoratore proveniente dalla provincia, malandato in salute, modello di sopportazione cristiana delle sofferenze e morto in ospedale a Napoli.
Anche Luigi Avellino nacque in provincia, a Vico Equense (Napoli) nella Penisola Sorrentina, il 16 aprile 1862, da Andrea Avellino e Lucia Volpe, genitori di sei figli e modesti lavoratori dei campi.
Luigi fu educato dal parroco Aiello, che gli fece anche da padrino di cresima e fin da ragazzo dimostrò una indole buona e docile.
Sotto la guida dello zio materno il sacerdote Giuseppe Volpe, si preparava a prendere la via del sacerdozio, quando a 16 anni fu costretto a lasciare gli studi e mettersi a lavorare nei campi per aiutare la famiglia.
Per le ulteriori difficoltà familiari, accettò di lavorare in una cava di pietra di tufo come manuale e qui si ammalò di artrite deformante, che lo fece diventare paralitico poco alla volta.
A Vico Equense, da sempre luogo di riposo, venne a villeggiare nell’autunno del 1882, il direttore dell’antico e grande ospedale degli Incurabili di Napoli, il dott. Ortale, il quale conosciutolo gli offrì il ricovero nel suo nosocomio.
A Napoli Luigi Avellino trascorse 18 anni, edificando tutti, medici, suore, infermieri e degenti, per la sua fede, il suo spirito di preghiera e di rassegnazione.
Organizzava e preparava le funzioni religiose e le feste solenni dell’anno, si prendeva cura materiale e spirituale degli altri ammalati, fu così nominato ‘priore’ del proprio reparto.
Terziario Francescano, praticò le virtù della povertà e umiltà, sopportando sorridendo le sofferenze che lo tormentavano e che lo portarono alla morte a 38 anni, il Venerdì Santo 13 aprile 1900.
Il 28 giugno 1911 fu aperto il processo informativo in cui testimoniarono con entusiasmo, sanitari, sacerdoti, assistenti e iscritti alle Confraternite del luogo.
I suoi resti mortali, dopo vari anni deposti in chiese napoletane, sono ora nella parrocchia del Ss. Salvatore di Vico Equense, dove fu battezzato.


Autore: 
Antonio Borrelli

 

____________V.Luigi Avellino___________


Nunzio Suplprizio

Nacque a Pescosansonesco (Pescara), nell'Abruzzo, il 13.4.1817. Una mattina d'inverno sul piede sinistro di Nunzio apparve un gonfiore che, al contatto con un carbone acceso, si trasformò in piaga. Il ragazzo, a causa degli spasmi del dolore, non potè più lavorare come fabbro per guadagnarsi da vivere e per camminare fu costretto a fare uso delle grucce. Questa piaga lo accopagnò per tutta la vita. Al momento della morte dalla piaga, rosseggiante di sangue, si sprigionò un soavissimo profumo. Le sue reliquie sono venerate a Napoli nella chiesa di S. Michele a Portalba. Paolo VI beatificò Nunzio Sulprizio il 1-12-1963.



Questo fiore della gioventù italiana nacque a Pescosansonesco (Pescara), nell'Abruzzo, il 13.4.1817, da un povero, ma onesto calzolaio. A sei anni era già orfano di padre e di madre, passata a seconde nozze. Di lui si prese cura la nonna, Anna Del Rosso ved. Luciani, santa donna, la quale, anche in mezzo alle sventure, andava ripetendo: "Nulla mi piace e nulla voglio se non quello che piace a Dio e Lui vuole". In paese era stimata da tutti perché esercitava la carità verso i poveri, e recitava il rosario con grande devozione. Alla sua scuola Nunzio crebbe molto pio.
Tutte le mattine e le sere accompagnava la nonna in chiesa per prendere parte alla messa e fare la visita al SS. Sacramento. Alle volte i coetanei lo andavano a invitare perché prendesse parte ai loro giochi. Se giungevano quando era immerso nella preghiera, li esortava a recitare con lui l'Ave Maria o il rosario. Ogni domenica era assiduo al catechismo, ogni giorno alla scuola aperta da Don Pier Nicola Fantacci. 
A nove anni il beato perdette anche la nonna. Lo zio materno, Domenico Luciani, lo prese con sé, ma invece di mandarlo a scuola, lo avviò al mestiere dì fabbro ferraio. Non era irreligioso, ma facile all'ira. Per questo sovente riservò al nipote cattivi trattamenti, e qualche volta giunse anche a percuoterlo. Una mattina d'inverno sul piede sinistro di Nunzio apparve un'enfiagione che, al fortuito contatto con un carbone acceso, si trasformò in piaga, e unì in carie ossea alla tibia. Il Luciani non s'intenerì agli spasmi del nipote, anzi lo prese ancora dì più in uggia perché, resosi inabile al lavoro, non gli procurava più quel guadagno che si riprometteva. Per camminare Nunzio fu costretto a fare uso delle grucce attirandosi così le beffe dei monelli di strada. Invece di lamentarsi o d'imprecare contro chi lo faceva soffrire, il beato levava gli occhi al cielo e sospirava: "Sia fatta la volontà di Dio". Non avendo mezzi per curarsi, andava a lavare la ferita con i pannilini sporchi alla fonte di Riparossa, ma le donne che andavano ad attingere acqua gliene interdissero l'uso. 
Svanita la speranza di sfruttamento e subentrato il timore di spese considerevoli, il Luciani ottenne che il nipote fosse curato nell'ospedale dell'Aquila (1831). Dopo tre mesi però se lo vide ritornare a casa perché i medici avevano giudicato insanabile la sua carie. Anziché commuoversi dinanzi agli strazi del nipote, divenne ancora più irascibile e avaro con lui, tanto che il poveretto fu costretto a mendicare per vivere. 
Un operaio di Pescosansonesco un giorno si recò a Napoli e incontrò Francesco Sulprizio, zio paterno di Nunzio, il quale prestava servizio nel 1° Granatieri della Guardia Reale con il grado di caporale. Alla notizia dei patimenti e maltrattamenti subiti dal nipote, lo chiamò subito a Napoli (1832), e lo affidò alla carità del colonnello Felice Wochinger, che godeva grande reputazione perché cristiano esemplare, soccorritore di poveri, di malati e carcerati. 
Il colonnello, vedendo che il giovanotto era tormentato da continue convulsioni, lo condusse all'ospedale degl'Incurabili, e lo fece preparare alla prima comunione da cui nel paese natale era stato tenuto lontano perché non aveva ancora compiuto i richiesti quindici anni di età. Attestò il suo confessore: "Da quel giorno la grazia celeste cominciò a operare in lui in maniera così straordinaria che fu veduto non camminare, ma correre nella virtù". Ogni domenica e solennità si confessava e si comunicava con crescente fervore, ed esortava i degenti a fare lo stesso. 
L'ospedale degl'Incurabili in Nunzio ebbe un modello singolare. Prima e dopo le azioni principali della giornata faceva con devozione il segno della croce. Portava al collo l'abitino della Madonna, al braccio la corona del rosario e teneva accanto al letto un vasetto di acqua santa con cui sovente aspergeva la sua persona e il suo giaciglio. I dolori sovente gli toglievano il sonno, ma, anziché rattristarsene, ne provava consolazione perché così poteva pregare più a lungo. Talora faceva orazione disteso per terra sotto il letto. Un infermo una volta aspettò pazientemente che avesse terminato, e poi gli domandò: "Nunzio, che cosa fai?". Gli rispose: "Penso all'anima mia e prego e piango per i peccati miei e quelli dei peccatori miei fratelli". Il confessore gli proibì quel genere di penitenza per la sua precaria salute, ma egli non poté dargli ascolto. Gli dichiarò infatti piangendo amaramente; "Non ho potuto fermarmi. Non è stato per mia volontà, ma una forza irresistibile mi ha costretto a trattenermi più a lungo". In tutto il resto era ubbidientissimo, e si sottometteva in silenzio alle prescrizioni dei medici e degli infermieri, nonché alle cure più dolorose. 
Commuoveva vederlo aggirarsi così sofferente nelle corsie dell'ospedale, prestare ai malati piccoli servizi, istruirli nelle verità della fede, e animarli dicendo loro: "Soffrite per amore di Dio e con allegrezza". Oppure: "Siate devoti di Maria e non temete". Non aveva paura delle infezioni. Alcuni, di quando in quando, lo consigliavano di non fare certe unzioni mercuriali perché gli potevano nuocere, ma egli rispondeva invariabilmente: "Ma io le faccio per amore di Dio". 
Quando il colonnello Wochinger gli portava qualche dolce o cibi speciali, li assaggiava appena e poi li mandava ad altri malati o agl'infermieri che lo maltrattavano di più. Per i più bisognosi sapeva sollecitare la carità dei buoni e l'attenzione dei medici. Un giorno il confessore lo sorprese in grande elevazione di spirito, ed egli gli confidò; "Chiedo al Signore che voglia caricare sopra di me i patimenti di questi altri poveri infermi". A Dio offriva incessantemente le sue sofferenze per la conversione dei cattivi. Fu udito esclamare: "Io vorrei morire per la conversione di un solo peccatore". "Se capitassi nelle mani degli eretici per la difesa della santa fede, vorrei dare la vita". 
Il Monte della Misericordia di Napoli aveva fondato a Casamicciola, nell'Isola d'Ischia, uno stabilimento di acque termali per gli infermi più bisognosi di cura. Tra i prescelti sia nel 1832 che nel 1833 ci fu anche Nunzio, ma non ne trasse giovamento alcuno. Mentre gli altri, specialmente il suo benefattore, s'intenerivano per i suoi gravi e continui patimenti, egli non se ne turbava affatto perché era convinto del valore della sofferenza e della necessità di conformarsi al volere di Dio per giungere alla santità. Il suo confessore affermò che quando il beato sentiva parlare dei misteri di Dio e delle verità della fede, si coloriva in viso, perdeva Fuso dei sensi e restava con gli occhi fissi e le labbra sorridenti. Molti desideravano vederlo quando prendeva parte alla Messa e faceva la comunione perché allora il suo estatico raccoglimento giungeva al culmine, e gli occhi gli si riempivano di lacrime. 
Dio lo premiò anche con il dono dei miracoli e della profezia. Un giorno, accanto a lui fu posto un uomo che aveva una piaga alla gola. Costui sovente si copriva il volto con le coperte del letto per la confusione che ne provava, ma Nunzio lo animò dicendogli: "Non dovete avere vergogna; qui siamo tutti uguali dinanzi al Signore". In seguito lo preparò a ricevere i sacramenti, lo medicò con le proprie mani, ma il male si aggravò talmente che i medici disperarono di salvarlo. Una mattina, mentre il sofferente spasimava, il beato smise improvvisamente di medicarlo ed esclamò, rapito in estasi: "O caro, non è più nulla. Voi siete guarito". 
Il colonnello Wochinger, vedendo che le cure dell'ospedale non miglioravano le condizioni di salute di Nunzio, lo volle accogliere nella propria residenza di Castelnuovo (1834) per farlo curare con rimedi più efficaci e avere davanti agli occhi il continuo esempio delle sue virtù. Il beato non si oppose alla generosità del suo padre adottivo, ma pianse al pensiero che non avrebbe più potuto fare la comunione, delizia del suo spirito, con la solita frequenza. 
Uscendo dall'ospedale aveva portato con sé quattro ducati, residuo delle offerte ricevute, che soleva spendere per aiutare gl'infermi più bisognosi o acquistare candele da accendere dinanzi a immagini sacre. Il colonnello, commosso da tanto spirito di povertà, volle che dormisse nella sua stanza da letto per poterlo soccorrere personalmente nei deliqui che lo sorprendevano durante la notte. Dopo un mese di premurose cure il beato migliorò talmente che poté lasciare le grucce e camminare appoggiato ad un bastoncino. 
Sperando la guarigione totale dai bagni termali di Casamicciola, durante l'estate vi ritornò in compagnia di un soldato, e fu ospite della famiglia di Don Filippo Barbieri. Costui attestò che durante la permanenza in casa sua, Nunzio fuggì la compagnia dei coetanei per starsene in casa a leggere vite di santi, studiare e pregare. Nel pomeriggio se ne andava in chiesa, e restava a lungo assorto davanti a un'immagine della Madonna delle Grazie. Prima di compiere qualche azione esclamava; "A gloria di Dio e di Mamma mia". Quando per l'accrescersi dei dolori era portato a braccia sul luogo dei bagni, anziché lamentarsi, ripeteva: "Madre Addolorata, benedetti i vostri dolori sofferti per i peccatori!... Pace!". Se gli spasmi aumentavano per la poca praticità o delicatezza del soldato, soggiungeva; "Benedetta passione di Gesù Cristo!... Pace!". 
Da molto tempo Nunzio pensava di farsi religioso. Ai sacerdoti che andavano a trovarlo e al colonnello confidava: "Io desidero uscire dal mondo e chiudermi in un chiostro per darmi tutto al mio Dio, e assicurarmi l'eterna salvezza". Si mise per questo a studiare il latino. Talora diceva: "Oh, se piacesse al Signore di ridarmi la sanità, mi farei religioso per imitare S. Pietro d'Alcantara nella virtù e nella penitenza". Un giorno il colonnello Wochinger, passando con Nunzio in carrozza da Secondigliano, volle fargli conoscere il Ven. Gaetano Errico (+1860), che pensava di fondare la congregazione dei SS. Cuori di Gesù e Maria. Dopo il colloquio, il venerabile disse alla sorella: "Hai veduto quel giovanetto infermo? Vorrebbe farsi religioso, ma non può a causa della sua malattia. Io gli ho promesso di prenderlo con me nella congregazione appena sarà fondata. Questo è un giovane santo". 
Il colonnello assegnò a Nunzio una stanza solitaria, e gli donò un nuovo vestito oscuro, che meglio rispondeva alle sue aspirazioni di vita religiosa, ma i disegni di Dio erano diversi. Gli attendenti del benefattore conducevano sovente il beato in chiesa perché facesse la comunione. Quando lo invitavano a ritornare a casa, li supplicava: "Permettetemi di trattenermi ancora qualche minuto: si sta così bene con Gesù!". Tornato nella sua stanzetta, doveva bere molta acqua per temperare il suo ardore. 
Di fronte al letto si era fatto appendere un'immagine di Gesù Bambino, dipinta sul vetro, e la guardava con tenerezza perché talvolta il Bambino mutava di colore e gli appariva con il viso cosparso di sangue. Accanto al letto, appeso al muro sopra l'inginocchiatoio, teneva pure un crocifisso, davanti al quale passava lunghe ore in orazione. Interrogato un giorno per chi pregasse tanto, rispose: "Prego per i peccati miei e dei miei fratelli, e per le anime benedette del Purgatorio". Nutriva pure una tenera devozione per S. Giuseppe, S. Michele e la Madonna che venerava recitando con frequenza l'Ave Maria, il Magnificat, l'Ave Maris Stella, le Litanie, il rosario e leggendo Le Glorie di Maria. Quando più acuti erano i suoi spasimi la supplicava: "Mamma mia, aiutami, perché io faccia la volontà del Signore". Era felice quando poteva intrattenersi con qualche sacerdote. Rispose a chi un giorno gliene chiese il motivo; "A me pare di udire da loro cose di paradiso. Io ritengo le loro parole come insegnamenti venuti dal ciclo". Non sapeva fare discorsi inutili. Parlava di preferenza della vita dei santi e dei patimenti dei martiri. 
Nonostante l'infermità, non ebbe preferenze per i cibi. Quando gli attendenti del colonnello al mattino gli chiedevano che cosa desiderasse per il pranzo, rispondeva: "Quello che la Provvidenza mi manderà". Mangiava ordinariamente una sola volta al giorno facendo uso di un po' di vino annacquato. Ogni tanto digiunava a pane ed acqua, e il mercoledì e il sabato si asteneva dalla frutta. Il colonnello non mancava di fargli le sue rimostranze, ma il beato lo rassicurava adducendo l'esempio di S. Luigi che viveva con poche once di cibo al giorno. Per mortificare di più la gola sorseggiava le medicine più disgustose e, quasi non bastassero gli spasimi che gli procurava la carie ossea, qualche volta si cingeva di cilicio e si flagellava. Non aveva nessun riguardo per il proprio corpo. Lo considerava un nemico. Per questo diceva: "Carne fracida, devi soffrire". Quando il dottore gli estraeva parte dell'osso cariato, un brivido correva per il corpo dei presenti, ma il beato soffriva senza un lamento benché qualche lacrima gli sgorgasse dagli occhi. A uno dei presenti che un giorno lo compassionava, disse; "Michele mio, se non si patisce non si gode". 
Il colonnello, ammirato da tanta virtù di Nunzio, diventava ogni giorno più affettuoso con lui, cercava di sollevarlo nel migliore dei modi, e invitava a casa sacerdoti e religiosi perché lo intrattenessero in pie conversazioni. Nunzio, che si riteneva indegno di tante attenzioni, gli mostrava la sua riconoscenza con le espressioni più soavi. 
L'affettuoso contegno del colonnello dispiaceva alle persone di servizio. Per invidia, quindi, ben sapendo che il beato non avrebbe parlato, lo maltrattavano in molte maniere e lo insultavano con parole triviali. Lo stesso zio paterno, Francesco, vedendo che era trattato come un figlio, se n'era ingelosito e minacciava di farlo cacciare e ridurlo a mendicare il pane. Nunzio rispondeva, senza alterarsi: "Sarà tutto quello che Dio vorrà. Quando si sentiva rivolgere parole di encomio, il santo giovane rispondeva, rosso in viso: "Io sono un povero peccatore". Quando si sentiva compiangere per i continui patimenti, rimaneva confuso e diceva: "E' troppo poco per i miei peccati". Desiderava che i suoi dolori diventassero ancora maggiori per offrirli a Dio in unione con quelli di Gesù Cristo. Il colonnello attestò nei processi: "Sentiva così bassamente di sé, che si reputava l'essere più vile e abietto, indegno della divina misericordia". Quando si confessava, piangeva sulle sue piccole infedeltà. Un giorno per ben tre volte fu visto dal confessore restare assorto con il volto in fiamme, e fu udito mormorare: "Dio mio! Dio mio!". Per farlo tornare in sé fu necessario scuoterlo ripetute volte. 
Nel 1835, aggravandosi il male, fu rimandato a Casamicciola per le cure termali. Questa volta i bagni lo ridussero agli estremi. Riportato a Napoli d'urgenza, un consulto medico fu del parere che gli fosse amputata la gamba perché la carie minacciava di trasformarsi in cancrena. Nunzio, pensando alla passione del Signore, diceva: "I professori facciano di me quello che credono". Messo a dieta lattea, fu colpito da idropisia. Sentendosi affievolire le forze. Nunzio cominciò a desiderare più ardentemente il paradiso, e a parlarne di preferenza. Vedendo il colonnello in grande cordoglio gli baciava la mano e lo incoraggiava dicendo: "Papà mio, state allegro; in cielo mi ricorderò sempre di voi, vi guarderò e vi assisterò". Un giorno lo chiamò vicino a sé e gli diede come ricordo un'immaginetta della Madonna delle Grazie. Egli già pregustava le gioie del paradiso. Difatti, le agitazioni inferiori che ogni tanto lo avevano turbato, si erano dileguate. Quando si sentì mancare le forze pregò il colonnello che gli desse il crocifisso e mandasse a chiamare il confessore. Quando gli fu portato il viatico trovò ancora la forza di sedersi sul letto ed esclamare: "Ecco la caparra della vita eterna. Padre mio, Signore mio, Salvatore mio, venite, venite". 
Morì il 5.5.1836 dopo aver sospirato, fissando in agonia un'immagine di Maria SS.: "Vedete com'è bella". Dalla piaga del suo malleolo, rosseggiante di sangue, si sprigionò un soavissimo odore. Il suo corpo al momento della sepoltura era ancora flessibile e dalle sue mani incise sgorgò sangue vermiglio. Le sue reliquie sono venerate a Napoli nella chiesa di S. Michele a Portalba. Paolo VI beatificò Nunzio Sulprizio il 1-12-1963. 
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